[Ecosistemi] di Gianluca D’Andrea – recensione a cura di natàlia castaldi


ecosistemi

di natàlia castaldi

Entrare in Ecosistemi è farsi partecipe, parte in causa, di una ricostruzione linguistico-territoriale complessa, frammentata apparentemente, eppur sempre circolare nel suo ruotare intorno alla materia originaria dell’umano, che in sé fonde necessità di memoria e preservazione dello spazio vitale, in uno slancio d’amore conservativo e di contro rivoluzionario proprio in virtù della sua volontà di preservazione del mondo, che in questo libro gioca esso stesso il primario ruolo di attore e metafora del suo connettivo inner sense: il linguaggio.

Ma andiamo per ordine iniziando ad esaminare il lavoro dal suo principio, dalla volontà esplicita dell’autore di costruire attraverso la parola un sistema vitale e reale che, partendo dalla convinzione di una necessaria clausura formale del linguaggio e della parola, detti delle vere e proprie regole semantiche e ritmiche tali da rendere il messaggio non semplice descrizione del reale, ma mezzo attraverso il quale la comprensione trova modo di r-accogliersi in sé con intransigenza etica, trasformando la necessità di comunicazione alla base di ogni scrittura in spinta universale, paradigma di speranza da opporre al favore del vento e al suo bersagliamento “social”-informativo, troppo spesso inversamente proporzionale alla capacità di mantenimento di tracce e memorie atte all’edificazione storico-sociale di un qualsiasi eco-sistema di persone.

Non a caso la scelta del titolo racchiuso entro le mura protettive di due parentesi quadre, [ECOSISTEMI], ricade su un termine composto che racchiude – a sua volta – un insieme di concetti che, talvolta ad iperbole, si richiamano tra loro in un unicum esistenziale che dal recupero dell’etimo greco οίκος, dimora, ambiente, e σύστημα (σύν + στημα = stare con) manifestano la necessità di con-vivenza nel medesimo spazio vitale di organismi dai più diversi e lontani (nel tempo e nella forma) ai più simili tra loro.

E come possono organismi tanto diversi, soggetti ed individualità tanto esasperate convivere all’interno di un medesimo luogo, se a quel luogo ed alla sua coesistenza non vengano preventivamente impartite delle regole di conservazione maturate attraverso l’esperienza e la tra-duzione della memoria dalla sua più carnale oralità fino alla sua concretizzazione logico-strutturale e grafica?

Che cosa è la parola del poeta se non linguaggio, mezzo di connessione e tradizione etica da preservare per preservare la nostra stessa specie?

L’Autore:

“Non ha un centro tutto è il centro.
Il mio margine illumina il paese
che riposa sotto libere coltri”

da SUL LIBRO (COME ECOSISTEMA) pag.52

Intorno a questi interrogativi sembra svolgersi la struttura circolare del libro che si rivela espressamente nella dedica posta ad esergo, quasi a voler introdurre ed enunciare come elemento fondante, la presenza di un percorso poetico già tracciato e proprio per questo ancora da esplorare, con un senso di filiale appartenenza – direi, che nel suo dedicarsi alla costruzione di una memoria si fa clone (dal greco κλών ramoscello, germoglio-figlio) di continuazione po-etica: Andrea Zanzotto.

La struttura formale del libro, conseguentemente, sembra rivolgersi ad una temperie zanzottiana fatta di madrigali e componimenti che richiamano il sonetto e la forma chiusa di stampo classico. Tuttavia la clausura linguistica e poetica qui, come peraltro in Zanzotto, non coincide affatto con una chiusura al mondo dell’esperienza e della ricerca contemporanea,

Mi è stato detto va riempito il foglio,
educare metrica e grammatica,
di mio, senza alcun suggerimento,
stronco le libertà che mi s’impongono.

da AL CENTRO [EVOSISTEMI], pag. 47

bensì risponde ad un’esigenza etica che fa della ricerca strutturale e formale di regole “conservative” materia riassuntiva di una poetica dell’insieme, in cui messaggio e comunicazione coincidano ed esplichino anche formalmente la volontà rivoluzionaria nell’opporsi ad una informazione depauperata del necessario lasso di tempo in-formativo per meditare su fatti e cose, appunto, da discernere per, poi, comunicare. – Ma comunicare cosa, viene spontaneo chiedersi alla fine di questa breve disamina su un libro che sintetizzerei come ctonico (da χθονιος), cioè ancorato alla terra, alle radici, quasi visceralmente e quindi verbalmente?

Ho sempre cercato l’errore
e la voglia lacrimevole di un rimorso,
la potenza malinconica
di ogni redenzione.

da CERCARE LA CLAUSURA, pag. 50

Un messaggio sinceramente etico, profondamente politico. Un messaggio di speranza per un’umanità che necessita di riscoprire nel suo chiudersi in se stessa, l’apertura alla conoscenza, la vastità dell’esperienza, l’immensità della memoria.

Il fatto poi che un’idea
debba violentare la primigenia carenza
è il modo di fare in modo
che un mondo s’inventi una speranza,
come vivere in comune un’emozione
o l’emozione di essere fuori di sé,
nell’estasi d’adorazione,
splendore che riluce dove oscuro è.

da IMBRATTAMENTO, pag. 41

Dunque mi piace concludere con la poesia che lo stesso autore ha scelto di porre a chiusura del  libro, un libro qui appena accennato ma che va scoperto nel suo frastagliato ruotare intorno al nucleo-cardine di speranza e vita, una poesia – dicevo – che nel  “far il verso” al leopardiano “talor m’assido in solitaria parte” imposta un dialogo con il nostro, affermando che sì è necessaria la ricerca di intimità e solitudine per dar vita alla creazione attraverso la meditazione sul reale, ma è altrettanto necessario operare questa clausura meditativa continuando a scavare non da “sovra l’erbe” quanto da “dentro l’erbe” stesse, sì da cogliere il senso stretto dell’infinito cui legarsi indissolubilmente attraverso la parola che si fa gesto, segno grafico, memoria. 

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NON PIU’ PADRE

Cosa sia al centro, un’assenza reale –
o dovere, dovere di ben fare
o male sofisticare – infinito –
– infinito – è il modo, urlo a capire.

Non mi assido toccata la neutrale
naturale, la forma assiderata.
Per arrivare in secco in niente andare
puro e disposto a salire le stelle.

Ma alterato è il dovere dentro l’erbe,
abbracciate le pelli all’infantile,
infimo bamboccino della terra.
Quel pianto lento del cammino nato
infinito, legarsi nel raccogliere.

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Gianluca D’Andrea, poeta, traduttore e critico, è nato a Messina nel 1976, si è laureato in Lettere Moderne con una tesi su Magrelli e il rapporto tra poesia contemporanea e mezzo informatico, oggi insegna nella scuola media. Suoi testi sono inclusi in varie antologie, sue poesie, traduzioni e recensioni sono pubblicate in riviste quali Vertigine, Ciminiera, Lo Specchio della Stampa, Il Domenicale, Sagarana, La Mosca di Milano, Testo a fronte, Tuttolibri, Poesia, L’Immaginazione, Ali, Fermenti, La Clessidra, Atelier. E anche sul web. Ha curato con Vincenzo Della Mea l’antologia Verso i bit (Lietocolle, 2005). E’ stato finalista al Premio Cetonaverde Poesia 2011. Vive tra la Sicilia e la Lombardia con la sua compagna Manuela e la figlioletta Sofia.

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