Ripresento qui riflessioni sui testi dei redattori del blog e fondatori della NSM, pubblicate precedentemente in altra sede (Gianluca D’Andrea).
NUOVA POESIA MESSINESE (1ª parte)
Diego Conticello
La distruzione delle cose
a Fabio Pusterla
Riflessi,
nuovamente piegati
soggiogati buoi/bestie
alla morsa del tempo
al buio come morte.
La distruzione delle cose.
E i nomi lì a rifulgere,
rifiutare di piegarsi,
di nuovo fare luce.
Cosmagonia
a Lucio Piccolo
Se un’enorme massa,
una dell’infinita
gragnuola
trapassante le galassie,
sfondasse i fragili
veli sferici
ad un’ora, ad un tempo preciso,
avremmo un’altra Tunguska,
impensati megatoni
del tramonto.
Questione di traiettorie,
risucchi implosivi
per cui siamo
conigli abbagliati,
sagome inutili
inette a smuoversi.
Chimiche brillanti
attraversano le ere
proiettando particole, orologerie
cieche puntate nelle tenebre,
luci scottanti della fine
l’universo enfiato
in un punto
che tutto sugge,
il nero foro dei mondi,
ombra contratta,
nulla allo stato puro.
Oscureremo per troppa chiarità,
un collasso
per veemenza di stelle…
entropia
non è piacere
di belle metafore e brune
ma morte della luce,
fuga da grazia
materna,
totale penetrazione
del gelo.
In un grande strappo
il mietitore fosco
espanderà questa
illusione vitale
esternandola all’oscura potenza
sebbene
serbiamo il segno,
unica serie di curve
al limite del sensibile
nella sera del cosmo.
La distruzione delle cose è il gioco allitterante proposto per una poetica della resilienza, della capacità, in questo caso delle parole, di sopportare i colpi distruttivi di un’estinzione che appare, agli occhi del poeta, incipiente. Non è un caso, infatti, la dedica a Fabio Pusterla, la cui poetica è esplicitamente diretta alla tutela del messaggio umano nel verbo – in quest’epoca post-umana. Il suono, allora, l’intento di un canto a «rifulgere,/ rifiutare di piegarsi// di nuovo fare luce» (vv. 7-9).
Cosmagonia, o della possibile, improvvisa fine. Ancora una riflessione, dunque, sull’ineluttabilità di un termine, di un confine che limita le nostre esistenze. La potenzialità della soglia, è certo, fa in modo che con le parole l’uomo agisca per una conservazione del «segno,/ unica serie di curve/ al limite del sensibile/ nella sera del cosmo» (vv. 45-48), ma, allo stesso tempo, induce a una riconsiderazione della nostra fragilità e le cadute per inarcamento di questi versi finali sembrano suggerircelo. Come in Piccolo (nume tutelare per Conticello): «È una mobile soglia che divide, unisce due zone;/ ma non sappiamo dove sorga la memoria/ e dove cominci l’invadenza discreta del flusso lunare» (E intanto la notte è venuta, in L. Piccolo, Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie, Scheiwiller, Milano 2001, p. 90, vv. 18-20).
I testi di Conticello vivono lucidamente il loro tempo, aggiornati e taglienti, aperti agli influssi della migliore tradizione italiana contemporanea e magistralmente radicati all’assolutezza etica che contraddistingue le migliori espressioni dell’isola (Piccolo, lo abbiamo visto, ma non dimenticherei Cattafi e le sue asprezze ctonie).
Il riferimento alle propensioni terragne della lingua poetica siciliana ci permette di ragionare su due testi esemplari, in tal senso, di Enrico De Lea.
Enrico De Lea
II.
Serba memoria d’alba,
camminate tra lo spino
e un rintocco calcareo, salvezza
sconosciuta dalle serpi.
Ritrova una salvezza altra,
di radura, la morte subitanea
dei vigneti, con la finzione
divenuta vita.
III.
Una frase anch’essa
calcarea, al suo spaccarsi
a un fuoco di fornace,
rende una crepa al cielo, troppo
vicino da escludersi.
Colmo di ogni ramo, esausto,
che qui s’innalza, collo
come di bestia antica
incattivita, resta,
sul vetro alle finestre, vapore
di erbe cotte della selva.
Entrambe le poesie appartengono alla serie Da un’urgenza della terra-luce (ass. La Luna, 2011), una sequenza di dieci frammenti incentrata sull’appartenenza “ctonia”, appunto, a un luogo materno: l’isola, è certo, anche se le scelte lessicali suggeriscono, quasi per sineddoche, un rapporto viscerale alla terra nel suo complesso. L’aspetto relativamente duro di una sedimentazione, direi archeologica, delle parole come delle esistenze siciliane, permette una riflessione sulle spaccature della lingua di De Lea, sulle sue crepe (e che cos’è una crepa se non un’altra soglia) pronte ad aprirsi al «cielo, troppo/ vicino da escludersi» (III., vv. 4-5). Ecco scaturire una lingua da quelle fenditure magmatiche delle origini, pronta ad espandere per necessità il suo orizzonte, anche con la forza «di bestia antica/ incattivita» (Ibid., vv. 8-9). Eppure dal «rintocco calcareo» di questi versi emerge la speranza insita nella conservazione di una tradizione attraverso un ricordo aurorale, sacralmente eterno: è ancora la facoltà sonora, il canto di questo linguaggio che sembra indifferente alle dinamiche accademiche, ai cavilli sul lirismo e l’anti-lirismo, a farci reimpossessare di un fondamento del linguaggio poetico. Sì, solo il canto è memoria, apertura nei rintocchi dei suoi ritmi: «Serba memoria d’alba,/ camminate tra lo spino/ e un rintocco calcareo, salvezza/ sconosciuta dalle serpi» (II., vv. 1-4), sibila e rimbomba sulle labbra la lingua e la memoria si riattiva in questi suoni striscianti, nell’allarme.
Gianluca D’Andrea